LE MATERIE DEL DOMANI / 4.
Gli algoritmi della nostra vita
Il software ha preso possesso del mondo. Ma qualcuno dice: «L’universo è fatto di matematica».
Corriere delle Comunicazioni
settembre 2015
di Marco Magrini
H = –∑ p(x) log p(x) è l’equazione che ha aperto la strada alla rivoluzione digitale. Claude Shannon, ingegnere elettronico dei Bell Labs che studiava come migliorare le comunicazioni a lunga distanza, la pubblicò nel 1949, gettando le basi di quel che oggi si chiama Teoria dell’informazione.
Shannon cercava una soluzione all’inaffidabilità dei segnali analogici usati a quel tempo per comunicare, sostanzialmente inutilizzabili sulle lunghe distanze. Risolse il problema ideando il bit, l’unità di base dell’informazione che, fondato sulla matematica binaria, può prendere la forma solo di uno zero di un uno. Due stati così differenti che, anche se deteriorati durante la trasmissione dell’informazione, sarebbero stati più facilmente interpretabili di quelli analogici.
La sua equazione serviva a calcolare l’entropia di un messaggio, ovvero la misura della sua incertezza, che in questo caso può essere definita come una misura dell’informazione contenuta. Ad esempio, il primo sondaggio in vista delle elezioni politiche ha un’entropia alta; in un secondo sondaggio effettuato una settimana dopo (quando più o meno le preferenze degli elettori sono conosciute) è più bassa. Secondo l’equazione di Shannon, un singolo carattere in un alfabeto di 27 caratteri – i 21 dell’italiano più J, K, X, W, Y e lo spazio – ha 4,27 bit di informazione. Senonché, sappiamo che la lettera A è molto più frequente della H, o che dopo la Q viene quasi sempre la U. Così, un singolo carattere può anche essere trasmesso con minor dispendio di bit. L’equazione di Shannon ha reso possibile il microprocessore, il personal computer e l’internet. Ma ha anche fissato l’impalcatura matematica per la trasmissione dei dati e per la loro compressione sotto forma di acronimi oggi celebri, come Mp3, Jpeg o Avi.
È dai tempi del teorema di Pitagora, che l’umanità ha beneficiato della matematica e della sua misteriosa esistenza. Provate a chiedere a un gruppo di scienziati di tante discipline diverse: la matematica è stata scoperta o inventata? È insita nella natura o è soltanto una creazione umana che però descrive la natura alla perfezione? Vedrete che, molto facilmente, si azzufferanno. «Il miracolo della coincidenza fra il linguaggio della matematica e le leggi della fisica, è un dono meraviglioso che non comprendiamo, né ci meritiamo», scriveva il premio Nobel Eugene Wigner nel 1960.
L’equazione di Shannon ha reso possibile il computer. La Legge di gravità di Isaac Newton ci ha portati sulla Luna. La seconda Legge della Termodinamica ci ha regalato l’automobile e la Relatività generale di Einstein, fra le altre cose, ci ha messo in mano l’energia atomica. Che sia stata scoperta o inventata – decidete voi quale parte prendere – la matematica fa parte del mondo naturale nel quale siamo nati e, sempre di più, di quello digitale che ci siamo costruiti. Insomma, che ce ne accorgiamo o no, siamo immersi nella matematica.
Fino al Medioevo, i matematici occidentali avevano a che fare coi numeri latini, paurosamente inadatti tanto per il conto della spesa che per il calcolo infinitesimale.
All’Europa, il mondo della matematica e dell’algebra si spalancò solo con le traduzioni dall’arabo al latino dei testi di Muhammad al-Khwarizmi – un astronomo dell’ottavo secolo con una profonda conoscenza dei numeri indiani – realizzate dall’inglese Robert of Chester, che li aveva reperiti in Spagna. Haec algorismus ars praesens dicitur in qua talibus indorum fruimur bis quinque figuris 0987654321, si legge nella traduzione: «Questa nuova arte è chiamata algoritmo, dove da questa doppia serie di cinque numeri 0987654321 degli indiani noi traiamo molto beneficio». Per chi avesse dubbi sul contributo della civiltà islamica al mondo contemporaneo, l’algoritmo è un fulgido esempio.
Un algoritmo è semplicemente una procedura dove, partendo da un input iniziale, si arriva a un preciso risultato seguendo una serie di instruzioni. Si può dire che esistano anche nel nostro cervello: voglio telefonare, compongo il numero, sento il segnale di occupato, abbasso la cornetta, richiamerò. Ovvero: inizio funzione, richiesta di informazioni, risposta, ricezione, ritorno allo stato di attesa. Gli algoritmi, alla base dei network neurali, vengono usati anche nei circuiti elettrici o negli strumenti meccanici. Ma è nei programmi software che, nel Ventesimo secolo, trovano la loro applicazione più diffusa.
Non c’è bisogno di ricorrere a troppe iperboli. Google, il secondo marchio di fabbrica al mondo (nelle valutazioni di InterBrand) e anche la seconda società al mondo per capitalizzazione di Borsa (460 miliardi di dollari), è nata da un algoritmo, partorito dai giovani Larry Page e Sergey Brin in una stanzetta dell’Università di Stanford.
L’importanza degli algoritmi nella società contemporanea è enorme, e crescente. C’è un algoritmo dietro i siti di appuntamenti, dietro le raccomandazioni commerciali di Amazon, la pubblicità di Google e il News Feed di Facebook, ma anche dietro i sistemi di sorveglianza, i software di criptaggio e, ovviamente, dietro le tecnologie di compressione dei dati, come i già citati Mp3, Jpeg o Avi. Si stima che ben oltre il 70% delle operazione giornalmente concluse a Wall Street non venga eseguito dagli umani ma dai computer, con il cosiddetto high-frequency trading, che è ovviamente governato dagli algoritmi.
In realtà però, il dominio della matematica sul mondo che ci circonda è appena cominciato.
Il tema caldo del momento si chiama machine learning, l’apprendimento automatizzato. È un sistema fatto di algoritmi che imparano dall’analisi dei dati e sono in grado fare predizioni, perlopiù con stratagemmi di natura statistica. Il machine learning è già largamente utilizzato nei campi più disparati: dalla pubbicità online alle diagnosi mediche, dal riconoscimento della voce o della scrittura al movimento dei robot, dall’analisi finanziaria ai giochi online. Come dimostra l’ondata degli assistenti personali su smartphone (Siri di Apple, Google Now di Google, Cortana di Microsoft) – imperfetti, ma sempre più accurati col passare del tempo – le macchine che apprendono fanno sempre più parte della nostra vita.
Mentre il genere umano inietta artificialmente la matematica nella vita di tutti i giorni, c’è chi sostiene che la matematica è molto, ma molto di più: è la fibra stessa dell’universo.
Nel libro «Il nostro universo matematico», Max Tegmark, professore di fisica all’Mit, sostiene che la matematica non descrive semplicemente il cosmo, ma lo crea. «Con la matematica – scrive lo scienziato svedese – abbiamo anticipato la scoperta delle onde radio, di Nettuno e del bosone di Higgs. Galileo diceva che l’universo è un “grande libro” scritto nella lingua della matematica. Io credo che siamo tutti parte di un gigantesco oggetto matematico, di un multiverso così grande da far impallidire gli altri multiversi di cui si è parlato finora». Eh sì, perché Tegmark, sulla base della matematica, sostiene che l’universo non è uno solo, ma tanti. Magari, addirittura infiniti.
Ci vorrà tantissimo tempo – secoli o forse millenni – per verificare se questa intuizione sugli universi matematici e paralleli è corretta oppure no (capirete che non è facile). Ma una cosa è certa: se già prima ci eravamo immersi, nel Ventunesimo secolo dipendiamo dalla matematica più che in qualunque altra epoca dell’avventura umana. Figuratevi nel Ventiduesimo.
BOX
L'equazione
del dominio cinese
prossimo venturo
A Roma, a Londra o a New York, ci si può anche vantare di non essere ferrati in matematica. A Pechino no.
Guardate l’articolo in alto: comincia con un’equazione. Secondo Stephen Hawking, è la soluzione perfetta per dimezzare il numero dei suoi lettori. Il celebre fisico racconta dell’ammonimento ricevuto anni fa dal suo editore: qualsiasi formula matematica pubblicata in un libro, diminuisce del 50% il numero dei potenziali lettori. Al punto che Hawking, nel suo best seller «Dal big bang ai buchi neri» decise di mettercene solo una, ma la più popolare di tutte: E=mc2.
Questo la dice lunga su come viene vista la matematica nella nostra società matematica. Una società che si affida sempre di più all’intelligenza delle equazioni e degli algoritmi, ma dove, curiosamente, una larga maggioranza di persone si vanta, o quantomeno non si vergogna, della propria ignoranza in materia.
Se estesa in un futuro ad alto tasso di robotizzazione, una simile contraddizione potrebbe sfociare in sgradevoli conseguenze, come la divisione sociale fra chi conosce la matematica e chi no. Ma, anche senza questi scenari distopici da fantascienza spicciola, resta il fatto che oggi, il mondo industrializzato vive già gli effetti della medesima contraddizione: sul mercato del lavoro c’è scarsità di matematici.
Già durante la presidenza di George W. Bush (un altro che era solito scherzare sul proprio analfabetismo matematico) gli Stati Uniti avevano levato l’allarme sulla scarsità di matematici sul mercato. Ma è un sentimento che attraversa tutto il mondo occidentale, anche se – va detto – una rapida ricerca sul web rivela che è dagli anni ’60 che questa preoccupazione va avanti, senza che il progresso scientifico si sia mai arrestato.
Ma c’è un gap culturale che, nel lungo periodo, potrebbe rivelarsi discriminante. Nelle famiglie cinesi, si dà per scontato che la matematica è la materia numero uno del curriculum scolastico. «Tutti si aspettano che nella società moderna uno studente sia ferrato in matematica – dice Lianghuo Fan, un professore cinese che insegna in Inghilterra e tocca con mano la distanza culturale fra i due mondi – anche a costo di spezzarsi la schiena sui libri». Se un Paese non frappone stupidi pregiudizi fra la difficoltà dell’apprendimento matematico e le opportunità che questo offre, ha una straordinaria carta in più da giocare sul palcoscenico globale.
È una variabile importante, nell’equazione del dominio cinese prossimo venturo.
Disclaimer: l’autore di questo articolo non conosce la matematica e non se ne vanta.