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LE MATERIE DEL DOMANI / 3.

Se il mondo diventa un laboratorio scientifico

Dal network delle macchine, al network dei cervelli.

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Corriere delle Comunicazioni

settembre 2015

di Marco Magrini

IL CUORE DELL’LHC, l’acceleratore di particelle del Cern che fa collidere protoni lungo una galleria circolare di 27 chilometri, è a Ginevra. Ma il suo cervello non abita lì. Il cervello del più grande esperimento scientifico della storia – sia in termini di investimenti che per il numero di ricercatori che ci lavorano – è sparso per tutto il mondo. Si chiama Grid, è un network di 200mila microprocessori, distribuiti in 170 centri di calcolo di 36 paesi diversi. Senza il Grid, sarebbe impossibile elaborare i circa 40 terabyte di dati generati quotidianamente dall’acceleratore: tutti quei calcolatori, dentro alla sede del Cern, non ci starebbero neppure.

Nel cambiare tutto, la digitalizzazione ha cambiato anche la scienza.

Tanto per cominciare, sembra esserci una chiara correlazione fra la diffusione delle tecnologie di comunicazione e l’aumento vertiginoso della produzione scientifica degli ultimi 25 anni. Per la prima volta nella storia, le idee e le scoperte possono circolare alla velocità della luce. Per la prima volta nella storia, i cervelli che le producono possono collaborare senza ostacoli geografici. Fatto sta che la produzione scientifica, calcolata sulla base dei documenti pubblicati dalle riviste peer-reviewed (dove i lavori degli scienziati vengono prima valutati da altri scienziati) è letteralmente decollata.

Prendiamo l’Italia. Nel 1996, gli scienziati italiani hanno pubblicato complessivamente 37.726 paper sulle riviste specializzate. Nel 2005 sono stati 61.762. E l’anno scorso ne hanno prodotti 93.064, peraltro scivolando dalla settima all’ottava posizione al mondo, scavalcati dall’India. Su scala globale, la crescita è stata altrettanto esuberante. Gli Stati Uniti, leader assoluti della pubblicazione scientifica, sono passati dai 330mila documenti del 1996 ai 552mila dell’anno scorso. Ma il fatto interessante è che la Cina, durante lo stesso periodo di tumultuosa crescita della sua economia, è passata dalla nona posizione (con 28mila paper) alla seconda posizione (con 452mila). In altre parole, la Repubblica Popolare sembra aver capito una lezione che qualcuno in Europa fatica ad apprendere: che c’è una relazione diretta fra investimenti in ricerca scientifica e crescita del reddito procapite. A maggior ragione adesso che, complice la rivoluzione digitale, siamo entrati nell’era post-industriale della conoscenza.

Da tempo, il capitale e la manodopera non sono più i soli fattori determinanti, nella competizione fra imprese e fra paesi. Nell’era della conoscenza, il sale della concorrenza è l’innovazione, che va dall’incessante perfezionamento di prodotti esistenti all’invenzione di nuovi prodotti e perfino di nuovi settori industriali. La ricerca scientifica e tecnologica sono al centro di questa transizione epocale: dalla nanotecnologia alla biologia sintetica, dalle neuroscienze alla meccanica quantistica, le frontiere della scienza si allargano insieme alle frontiere dell’economia.

La britannica Nature (la più importante rivista scientifica al mondo, insieme all’americana Science) ha calcolato che il numero delle pubblicazioni raddoppia ogni nove anni. Ma non si può dire che la conoscenza raddoppi allo stesso ritmo. È che sono aumentate le riviste, che qualcuno scrive articoli anche su avanzamenti marginali e, come purtroppo racconta la cronaca, che pochi falsificano i dati pur di pubblicare e di guadagnare punti per il proprio indice-H (il ranking internazionale degli scienziati, basato proprio sulle pubblicazioni e sul numero di volte che vengono citate). Però, senza dubbio, la produzione scientifica è senza precedenti nella storia: ogni anno, 8 milioni di ricercatori pubblicano su 28.134 riviste scientifiche (per contare solo quelle in inglese) 2,5 milioni di articoli. Ben difficilmente si arresterà.

Ma la diffusione della conoscenza, e quindi la sua moltiplicazione, non sono le uniche ricadute della rivoluzione tecnologica. 

Se nell’Ottocento qualcuno poteva scoprire qualcosa sperimentando, che so, con ferro, zolfo e provette, nel Ventunesimo secolo la ricerca è salire a piani ben più alti. Al giorno d’oggi, le scoperte vengono perseguite con macchine mostruosamente complesse (come l’LHC) e studiate com l’ausilio di sofisticati sistemi di calcolo (come il Grid).

Se nel 2003, quando venne annunciato il primo sequenziamento del genoma di un essere umano, c’erano voluti dieci anni per arrivare al traguardo, nel 2010 bastavano un paio di settimane. Oggi, la lettura completa delle basi azotate A, C, G, e T che compongono il Dna richiede un paio d’ore. Perdipiù, alla modica cifra di un migliaio di dollari, contro le decine di milioni che furono spesi la prima volta. Tutto questo, è stato reso possibile dall’aumento esponenziale della capacità di calcolo dei microprocessori, da algoritmi più efficienti e da macchine più sofisticate per la lettura del codice genetico. Ovvero dalla tecnologia.

Così come non esiste una persona al mondo capace di costruire da sola un iPhone 6 (o un Boeing 777), anche questi giganteschi progressi della genetica non sono più frutto di una solitaria intuizione, ma di un monumentale gioco di squadra. Ma non soltanto la squadra di un’università o di un’impresa privata, che pure lo fanno per competere, ma il gigantesco team del genere umano. 

Prendiamo la meccanica quantistica. «Se non vi ha scioccato, vuol dire che non l’avete capita», disse Niels Bohr, uno dei padri di questa branca della fisica nata nella prima metà del Novecento, che spiega alla perfezione il comportamento di atomi e fotoni, ma con bizzarre proprietà che sembrano non appartenere al mondo che conosciamo. Eppure, mezzo secolo più tardi quelle stesse proprietà hanno reso possibile il microchip, il laser, il microscopio elettronico e la risonanza magnetica, tutte invenzioni che hanno beneficiato il genere umano e la sua scienza. Le quali sono il frutto non di decine, ma di migliaia di cervelli. Non a caso, un secolo dopo Niels Bohr, la meccanica quantistica ha ancora un sacco di promesse da mantenere, a cominciare dal fantomatico ma non impossibile computer quantistico.

La competizione, ma anche la collaborazione, fra le menti di tutto il mondo è destinata a crescere a dismisura in questo secolo, moltiplicata dalla tecnologia. Solo nell’area Ocse, si stima che i ricercatori siano passati da 4,2 milioni nel 2007 a 8,4 milioni nel 2011. Ma anche nei Paesi in via di sviluppo, l’Onu prevede un sensibile aumento degli investimenti in ricerca. Per non parlare della Cina che, secondo le ultime proiezioni, supererà gli Stati Uniti in produzione scientifica intorno al 2020.

In questo scenario, è ben difficile immaginare cosa ci sarà scritto nei libri scolastici di scienza del 2065, fra cinquant’anni, quando l’LHC sarà un ricordo del passato e avrà già svelato qualche altro segreto della fisica della materia. Tuttavia, per stimare cosa potrà succedere, basta calcolare cosa non dicevano i libri del liceo di cinquant’anni or sono, nel 1965, quando la scoperta della doppia elica del Dna, e l’invenzione del laser o del circuito integrato erano talmente recenti da non essere, forse, neppure menzionate. Se moltiplichiamo per otto (due alla terza: ipotizziamo che la conoscenza raddoppi per tre volte nell’arco di cento anni), otteniamo il risultato finale.

Sì, d’accordo, si tratta di un calcolo improbabile, e per nulla scientifico. Però dà almeno un’idea di quel che sta per succedere.

BOX

Ma cosa c'entra

Google con 

le psicopatologie?

La società californiana vuole affrontare la sfida delle malattie mentali. È la convergenza di scienza e tecnologia.

Dopo 13 anni, Thomas Insel, direttore del National Institute of Mental Health americano, abbandona il servizio pubblico per passare all’industria privata. La notizia, di qualche settimana fa, sarebbe passata inosservata se Insel fosse andato a lavorare per qualche gigante farmaceutico, come Pfizer e Novartis, oppure per qualche astro della biotecnologia, come Amgen o Genzyme. Invece la notizia ha fatto rumore perché il neurologo, esperto di malattie mentali, è andato a lavorare per Google. Anzi, per Google Life Sciences, che è parte di  Alphabet, la nuova holding del gruppo di Mountain View.

Ma che c’entra Google con le psicopatologie? Una possibile risposta, l’ha data lo stesso Insel nella sua lettera di addio all’Institute of Mental Health: «La filosofia di Google è stata quella di affrontare problemi difficili con un impatto di dieci volte [rispetto al normale]. Io punto a colpire, dieci volte più intensamente, il problema della salute mentale». Così come Larry Page e Sergey Brin, hanno trasformato il web con il loro celebrato algoritmo, così la nuova Alphabet vuole trasformare il trasformabile. Cervello umano incluso.

La narrativa di «cambiare il mondo» è stata inaugurata molti anni fa da Steve Jobs, che attribuiva il pomposo obbiettivo già alle sue prime creature tecnologiche. Senonché, con la sequenza Mac-iPod-iPhone-iPad, c’è riuscito per davvero. Google, come dicevamo, ha bissato il successo. Al punto che quella narrativa è diventata parte della cultura internazionale dell’innovazione. La professano un po’ tutti, dalla cinese Xiaomi – l’astro nascente della telefonia cellulare – al business plan dell’ultima startup.

Nel ventunesimo secolo però, il concetto – una volta epurato dalle esasperazioni (e dal marketing) – ha un senso. La contemporanea esplosione della tecnologia applicata alla scienza e della scienza applicata alla tecnologia, può oggettivamente moltiplicare le chance di impatti epocali sulla civiltà umana. Le frontiere della microelettronica, di big data, della genetica, della biologia sintetica, o delle neuroscienze a cui Google Life Sciences vuole dedicarsi, si stanno allargando e intrecciando così rapidamente che l’idea di moltiplicare per dieci l’impatto finale su prodotti e servizi non è poi così peregrina. Dopo Google News, i Google Glass e la futura Google Car, possiamo attenderci Google Brain?

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