
Fra dieci giorni esce in America il nuovo libro di Bob Woodward, il giornalista del Washington Post che contribuì alle dimissioni di Richard Nixon. Si intitola «Fear» – paura – e in copertina esibisce il cipiglio di Donald Trump.
Il titolo origina da una risposta che lo stesso Trump offrì a Woodward durante un’intervista in campagna presidenziale: «Il vero potere, non vorrei nemmeno usare quella parola, è la paura». Il che, già allora, la diceva lunga sulla sua personale concezione dello Studio Ovale, tradizionalmente noto come l’ufficio della persona più potente del mondo.
Nel caleidoscopio delle emozioni disponibili in un cervello umano, la paura ha un posto di tutto riguardo. Possiede un circuito neuronale a sua disposizione, evolutosi in centinaia di milioni di anni per un fine quantomai strategico: assicurare la sopravvivenza in caso di pericolo. È un meccanismo che, come sappiamo per esperienza personale, si attiva automaticamente e rapidamente (circa 400 millisecondi) senza bisogno di pensarci.
La paura è un emozione primordiale, insopprimibile e – talvolta – incontrollabile. Difatti non si attiva soltanto davanti a un animale predatore (o a un’auto che non rispetta le strisce pedonali), ma anche nella semplice previsione del pericolo. Le amigdale, strutture simili a una mandorla (da cui il nome) dislocate dietro ai lobi temporali di entrambi gli emisferi cerebrali, si attivano in tutte le risposte emotive – la paura in primis – e gestiscono anche la memoria dei pericoli, per le future evenienze. Tuttavia, «se le precauzioni sono costruttive, restare in uno stato di paura è distruttivo», osserva Gavin de Becker nel libro Il dono della paura. Lo stress, a conti fatti una stimolazione prolungata del circuito della paura, produce cortisolo, un ormone capace di alte dosi di danneggiare il sistema immunitario, il cuore e le ossa. La previsione ossessiva di pericoli immaginari però, sembra danneggiare anche la democrazia.
Trump ha brandito la paura quasi scientificamente, sin dalle primarie per la candidatura repubblicana, proseguendo nella campagna anti-Hillary e, sin qui, per tutta la presidenza. Gli immigrati messicani che rubano e violentano le donne. Gli islamici che odiano l’America e vogliono distruggerla. I cinesi che depredano gli americani di posti di lavoro. Gli alleati della Nato che se ne approfittano. La stampa che è nemica del popolo. E si potrebbe continuare a lungo: un diluvio di tweet, è lì a testimoniare una sistematica attivazione delle amigdale dell’elettorato americano.
I risultati di questo gigantesco test collettivo sembrano evidenti: Trump ha vinto le primarie, la presidenza e – secondo i sondaggi – anche il continuato appoggio dei suoi elettori, nonostante tutto quel che ha detto e tutto quel che è successo negli ultimi 20 mesi. Ma, a ben pensarci, non è stata forse la paura (allegramente indotta dai sostenitori della Brexit a colpi di bugie e disinformazioni) a sospingere gli inglesi fuori dall’Unione Europea? Non è forse la paura, spesso alimentata altrettanto artificialmente, a innescare l’attuale scossa nazionalista che attraversa l’Europa?
Eravamo abituati a una politica che vende e propaganda la speranza, a volte mentendo. E ci ritroviamo con una concezione del potere che – ben lontana dal soft power, propugnato da Barack Obama – si basa all’opposto sulla paura degli altri, dei diversi.
Ma la paura fa male alla salute, oltre che alle elezioni. Come diceva un altro presidente americano, Franklin Delano Roosevelt, «l’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura».