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Incomprensibilmente Trump


John D. Rockefeller e Henry Ford, i pionieri dell'industria petrolifera e automobilistica americana

«Come mai gli Stati Uniti, in un modo o in un altro, si oppongono da decenni al taglio delle emissioni dei gas-serra?», chiede uno. «Tutta colpa delle lobby del petrolio e delle automobili», risponde l’altro.


Forse anche voi avrete udito cento volte un dialogo del genere. Talmente tante volte da essere diventato un luogo comune, se non un dato di fatto. Del resto, la variabile lobbistica è notoriamente parte integrante del sistema politico americano e il peso specifico di quei due settori industriali – inaugurati da John Rockefeller e da Henry Ford – è da sempre evidente. Eppure, negli ultimi mesi, Donald Trump è riuscito a mettere a dura prova anche quell’idea.


Prima la Casa Bianca ha annunciato la revoca dei nuovi standard Cafe (Corporate Average Fuel Economy) sull’efficienza energetica del parco macchine americano, come era stato disposto dall’amministrazione Obama. Peccato che, in una lettera aperta, le grandi case automobilistiche di Detroit abbiano chiesto al presidente di ripensarci. Il motivo è che, nel mercato automobilistico, la competizione si sta già spostando chiaramente sulle auto a emissioni-zero. Abbassare l’asticella, significa disincentivare i costruttori a competere in un business sempre più marcatamente tecnologico. Senza contare che c’è la California, che ha standard ambientali ben più restrittivi, e questo comporterebbe per i costruttori soltanto costi più alti. Ma Trump non li ha ascoltati.


Dopodiché la Casa Bianca ha deciso di smantellare i requisiti imposti da Obama su pozzi petroliferi e di gas, per verificare e impedire la fuoriuscita di metano nell’atmosfera. Il metano è un gas con potenzialità di effetto-serra circa cento volte quelle dell’anidride carbonica (se calcolate in un arco di venti anni). Investire per garantire l’assenza di perdite nei gasdotti sembrerebbe una cosa naturale: per salvaguardare il pianeta, ma anche per non disperdere una risorsa che può essere venduta sul mercato. ExxonMobil e Bp – ovvero due protagoniste di Big Oil, come viene comunemente chiamata la famigerata lobby del petrolio – hanno chiesto al presidente di non revocare le regole di Obama. Niente da fare. Trump, comunque incoraggiato dall’American Petroleum Industry (l’associazione dei petrolieri che include migliaia di piccoli produttori), ha di fatto “liberalizzato” le emissioni di metano.


Ma non erano le lobby tentacolari dell’energia e delle quattro ruote a dominare Washington? Si, certo, lo erano. Se è per questo, sotto il Decimo Emendamento gli Stati che compongono la Federazione americana godono di un’immensa discrezionalità, dalle schede elettorali alle aliquote fiscali. Eppure, Trump ha appena revocato l’autorità della California nel fissare i propri standard ambientali per le automobili, aprendo così un’aspra disfida legale fra l’autorità federale e lo Stato più popoloso e ricco dell’intera Federazione, che farà ricchi gli avvocati.


L’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sulla riduzione delle emissioni-serra (che fra parentesi prevede solo obiettivi volontari e nessuna sanzione per chi non li raggiunge) è stata incomprensibile sin dal primo minuto. Ma è l’incomprensibilità di quel che è successo dopo, a risultare del tutto incomprensibile.


«Si può davvero andare alla guerra contro il buon senso?», chiede uno. «Speriamo non per altri quattro anni», risponde l’altro.






Pubblicato il 22.9.19 su Eureka, un blog de L’Espresso.

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