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Contro l'epidemia di demenza




Si dice che sul pianeta Terra venga diagnosticato un nuovo caso di demenza ogni 3,2 secondi. In un rapporto del 2015, l’Organizzazione Mondiale della Sanità stimava che ci fossero 46,8 milioni di persone affette, in larga maggioranza a causa dell’Alzheimer. Ma il fatto terribile è che, secondo le proiezioni dell’OMS, i pazienti saranno quasi 75 milioni nel 2030 e 132 milioni nel 2050. Non a caso, già la chiamano «epidemia».


La questione è squisitamente demografica. Da un lato, la durata della vita non è mai stata così lunga nella storia dell’umanità (la media globale è di 71 anni, contro i 31 del 1900 e i 48 del 1950), fino al punto di scombinare i sistemi pensionistici esistenti. Dall’altro, i baby boomers (i nati fra il 1946 e il 1964) hanno cominciato l’anno scorso a superare la soglia dei settant’anni, tingendo fatalmente di grigio le popolazioni con un basso tasso di fertilità. Più vecchi e vecchi più a lungo: una somma che rende prevedibile la futura epidemia di demenza.


I costi sociali potrebbero essere esorbitanti. La stessa OMS, includendo le ore di lavoro perdute da coloro che devono assistere i malati di Alzheimer o di altre forme di demenza, calcolava nel 2014 la bellezza di 607 miliardi di dollari all’anno. Una cifra che, se triplicata da qui al 2050, rischia di rivelarsi insostenibile. Gli Stati, oltre ad appoggiare campagne di sensibilizzazione e di prevenzione – come quelle che si tengono in tutto il mondo oggi 21 settembre, Giornata Mondiale dell’Alzheimer – potrebbero investire in un’altra forma di preveggenza: il lifelong learning, l’apprendimento continuato. Il perché lo hanno dimostrato le suore. Per l’esattezza, le Suore Scolastiche di Nostra Signora, un ordine religioso di diritto pontificio.


Uno studio pluridecennale realizzato dall’Università del Minnesota a partire dal 1986, ha messo a confronto testi scritti nel passato da oltre settecento novizie con le rispettive patologie da anziane. La forte correlazione statistica fra il livello culturale e la propensione all’Alzheimer non ha lasciato spazio a troppi dubbi: l’incessante costruzione e l’incessante rafforzamento delle sinapsi, servono a fronteggiare l’Alzheimer.


Certo, c’è anche la genetica. I geni sembrano pesare più nella variante precoce (l’Alzheimer che si manifesta prima dei 60 anni e rappresenta il 10% dei casi) che non in quella abitualmente associata con l’età avanzata. Inoltre, sono destinati a proliferare metodi per un’utilissima diagnosi precoce, come quello recentemente pubblicato da  un team di ricercatori dell’Università di Bari, che ha usato l’intelligenza artificiale per “allenare” un algoritmo a riconoscere i segnali dell’Alzheimer nelle risonanze magnetiche cerebrali. Infine, recenti scoperte scientifiche lasciano intendere che un giorno non lontano potrebbero spuntare le prime terapie, per quanto ancora primitive.


Oltre a incoraggiare l’esercizio fisico e la sana alimentazione, gli Stati baciati da una lunga durata media della vita – Italia inclusa – farebbero bene a promuovere un moderno stile di vita orientato all’apprendimento continuo (nella foto in alto: un affollato esame in Cina, nel 2015). Non si tratta di avere a che fare con esami e pagelle per tutta la vita, ma di incentivare la plasticità cerebrale, di potenziare sinapsi e neuroni e di favorire la produzione della mielina che li fa “parlare” meglio. Forse basterebbe informare più a fondo il pubblico, diffondere l’idea che studiare e apprendere sempre cose nuove – anche a libero piacimento – fa bene alla salute cerebrale. O magari si potrebbe ripescare il sogno del Rapporto Delors del 1996, quando la Commissione Europea teorizzò un sistema di istruzione capace di attraversare l’arco dell’esistenza e poggiato su “quattro pilastri”: «imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a essere, imparare a vivere insieme».


Un’utopia? Eppure sarebbe il momento perfetto. Davanti alla crescente ondata di robot e intelligenze artificiali, le società occidentali si chiedono che ne sarà della forza-lavoro. A detta di alcuni economisti (e del mensile The Economist che a inizio anno ci ha fatto una copertina) il lifelong learningoffrirebbe quella flessibilità e quella capacità di reinventarsi probabilmente indispensabili al mercato del lavoro di domani.


Avrebbe anche il vantaggio di arginare un’epidemia, terribile e apparentemente inarrestabile.


Pubblicato il 21.9.17 su Eureka, un blog de L’Espresso


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